La liquidazione delle spese di causa ai sensi del DM 140/2012 e del DL 1/2012 - superamento dei limiti di cui alle tabelle ministeriali e tutela del cliente.

Le recenti modifiche normative in tema di liquidazione degli onorari di causa possono mettere in difficoltà sia il Cliente che l'Avvocato; forse però esiste una soluzione che consenta di superare tale problema.

 


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Le recenti e continue novità in tema di liquidazione delle spese legali hanno creato una serie di difficoltà e di casi paradossali che non sfuggono agli operatori del diritto chiamati ad affrontare tali situazioni in prima linea.

Come risaputo, il D.M. 140/2012 ha stabilito che il giudice nel liquidare le spese legali farà riferimento ad una serie di parametri fissati dal ministero; a tale disposizione normativa si affianca però il vigente obbligo di stipulare un contratto di conferimento di incarico tra professionista e cliente il cui contenuto - in seguito alla intervenuta liberalizzazione delle tariffe - è libero, non essendo vincolato a nessun limite minimo o massimo, come invece avveniva sotto la vigenza dell'abrogato DM 127/94.

Di fatto può accadere facilmente che tra avvocato e cliente sia pattuito un onorario che risulti superiore a quanto liquidato dal giudice. In tali casi la precedente normativa  di cui al DM 127/94, mentre da un lato prevedeva che il cliente fosse comunque tenuto a pagare all'avvocato l'onorario, dall'altro a tale onorario poneva un limite, in quanto il compenso dovuto non poteva essere superiore a quanto stabilito dalle tabelle; in ogni caso era possibile impugnare la sentenza sul capitolo delle spese, rifacendosi appunto alle tariffe obbligatorie, qualora il giudice non le avesse ripettate ed avesse liquidato importi inferiori; per cui - virtualmente - non esisteva alcun problema di pieno riconoscimento e liquidazione delle spese legali, che con la soccombenza venivano interamente addossate alla controparte processuale.

Il DM 127/94 però è stato ormai abrogato; quindi, mentre resta l'obbligo da parte del cliente di corrispondere all'avvocato quanto pattuito, tale importo può essere largamente superiore a quanto liquidato dal giudice. Ciò comporta un evidente danno a carico del cliente, il quale dovrà corrispondere al professionista, personalmente e a sue spese, la parte dell'onorario non liquidata dal giudice; comporta altresì grave imbarazzo da parte dell'avvocato che, in caso di mancato e spontaneo pagamento di quanto pattiziamente dovuto, dovrà azionare gli strumenti giudiziari per il recupero coattivo, arrivando a chiedere l'emissione di decreto ingiuntivo nei confronti del suo stesso cliente.

La questione parrebbe risolvibile da una attenta lettura dell'art. 1 DM 140/2012 il quale prevede testualmente:  “L'organo giurisdizionale che deve liquidare il compenso dei professionisti di cui ai capi che seguono applica, in difetto di accordo tra le parti in ordine allo stesso compenso, le disposizioni del presente decreto.” In presenza di accordo tra le parti circa il compenso, quindi, i parametri ministeriali non sarebbero applicabili, ma andrebbero applicati quelli di cui al predetto accordo; le tabelle ministeriai, quindi, avrebbero mero valore residuale.

Senonchè la legge di stabilità, attualmente all'esame del parlamento, prevede un nuovo testo per l'ultimo comma dell'art. 91 CPC il quale, per la parte che qui interessa, recita: “I compensi liquidati dal giudice e posti a carico del soccombente non possono superare il valore effettivo della causa. I compensi non comprendono le spese.” Qualora tale norma superasse indenne l'esame parlamentare appare chiaro che nelle cause di basso valore (che sono però molto numerose) verrebbe introdotta una pesantissima limitazione agli onorari liquidabili, riproponendo il paradosso iniziale.

Pare a questo punto a chi scrive che in tal caso sarebbe esperibile l'ordinaria azione di responsabilità aquiliana; infatti è fuori dubbio che l'esborso economico dovuto per la prestazione professionale pattuita possa (anzi, debba) essere inquadrato quale danno emergente, e come tale addebitabile a chi tale danno ha causato, vale a dire la parte soccombente. Non si tratterebbe di chiedere solo la semplice liquidazione degli onorari di difesa ai sensi dell'art. 191 CPC, ma di instare altresì per una specifica condanna a titolo di risarcimento del danno subito e consistente nella differenza tra la somma liquidata dal giudice a titolo di liquidazione degli onorari di difesa ex art. 191 CPC e la somma effettivamente dovuta all'avvocato in seguito all'obbligazione pattiziamente assunta col medesimo per la difesa processuale. D'altra parte il novellato art. 191 CPC, pur se approvato nella predetta formulazione, non porrebbe affatto un tetto al massimo onorario pattuibile tra le parti, ma solo alla massima liquidazione giudiziaria, restando quindi intatto il dovere del cliente di corrispondere quanto pattuito all'avvocato, e conseguentemente restando intatto il danno subito dal medesimo a causa del maggior esborso patrimoniale rispetto a quanto liquidabile a titolo di spese legali dal giudice.

Ai fini dell'accoglibilità in giudizio la domanda andrà adeguatamente provata; sarà perciò necessario produrre il contratto di conferimento dell'incarico sottoscritto dalle parti, il quale servirà a quantificare con precisione l'onorario dovuto; la domanda inoltre - come già rilevato in epigrafe - dovrà essere esplicitamente formulata, non come generica istanza di condanna alla soccombenza, ma con esplicito riferimento al contratto prodotto e qualificandola come azione di risarcimento del danno; in caso si agisca come parte convenuta andrà formulata espressa domanda riconvenzionale.

A parte l'ipotesi del novellato art. 91 CPC il contratto andrà comunque prodotto, per evitare l'applicazione dei parametri ministeriali in mancanza di prova dell'accordo tra le parti circa gli onorari; e data la costante tendenza degli ultimi tempi a mortificare in ogni modo le legittime aspettative di remunerazione dell'avvocatura, potrebbe non essere una cattiva idea quella di inserire comunque la richiesta di condanna al risarcimento del danno qualora il giudice, per una qualsiasi ragione, decida di liquidare degli onorari di difesa inferiori a quelli risultanti dal contratto sottoscritto tra la parte e l'avvocato.

Si ripete che ormai non esistono più tariffe fisse; se prima il problema non sussisteva, se tale azione non aveva ragione di essere proposta in virtù di un tabellario avente cogenza normativa e della possibilità di appellare una sentenza che eventualmente se ne discostasse, oggi non è più così: vi è la nuova esigenza di tutelare il cittadino che chieda giustizia dal danno che potrebbe essergli causato dal pagamento di parcelle, perfettamente legali e dovute, superiori alle spese di giustizia liquidate.

Una formula possibile, da personalizzare a seconda dei casi, potrebbe essere la seguente:

Si chiede la condanna di controparte al pagamento delle spese di causa da calcolarsi - ai sensi dell'art. 1 del DM 140/2012 - in base al contratto di conferimento di incarico professionale sottoscritto dall'istante e dallo scrivente difensore, prodotto in allegato nel fascicolo di parte, in cui è formalizzato l'accordo tra le parti in ordine al compenso. In subordine, qualora il Giudice adito ritenesse di liquidare un diverso e più basso onorario di difesa, si chiede di condannare controparte al risarcimento del danno subito dall'istante e consistente nella differenza tra la somma determinata dal Giudice a titolo di liquidazione degli onorari di difesa ex art. 191 CPC e la somma effettivamente dovuta dall'istante all'avvocato in seguito all'obbligazione pattiziamente assunta col medesimo per la difesa processuale, come risultante dal predetto contratto di conferimento di incarico professionale. Tutto ciò essendo dimostrato per tabulas il pregiudizio subito dall'istante il quale è tenuto a pagare gli onorari effettivamente dovuti all'avvocato e non essendo possibile che tali onorari, liberamente concordati ai sensi dell'art. 9 del D.L. 1/2012 in seguito alla liberalizzazione delle tariffe, debbano essere conformi a quanto liquidato a carico della parte soccombente, nè che siano conformi alle indicazioni ministeriali, in quanto ciò reintrodurrebbe l'abolito criterio delle tabelle fisse, in contrasto anche con l'art. 1, n. 7 del DM 140/2012; ne è possibile altresì che tale esborso resti a carico dell'istante che ha il diritto costituzionalmente garantito a potersi difendere in giudizio, diritto che resterebbe grandemente diminuito ove l'onere di tale difesa o parte di esso restasse a suo carico anche in caso di vittoria, risolvendosi così in un ingiusto pregiudizio economico a danno dell'istante medesimo.

Le recenti e continue novità in tema di liquidazione delle spese legali hanno creato una serie di difficoltà e di casi paradossali che non sfuggono agli operatori del diritto chiamati ad affrontare tali situazioni in prima linea.

Come risaputo, il D.M. 140/2012 ha stabilito che il giudice nel liquidare le spese legali farà riferimento ad una serie di parametri fissati dal ministero; a tale disposizione normativa si affianca però il vigente obbligo di stipulare un contratto di conferimento di incarico tra professionista e cliente il cui contenuto - in seguito alla intervenuta liberalizzazione delle tariffe - è libero, non essendo vincolato a nessun limite minimo o massimo, come invece avveniva sotto la vigenza dell'abrogato DM 127/94.

Di fatto può accadere facilmente che tra avvocato e cliente sia pattuito un onorario che risulti superiore a quanto liquidato dal giudice. In tali casi la precedente normativa  di cui al DM 127/94, mentre da un lato prevedeva che il cliente fosse comunque tenuto a pagare all'avvocato l'onorario, dall'altro a tale onorario poneva un limite, in quanto il compenso dovuto non poteva essere superiore a quanto stabilito dalle tabelle; in ogni caso era possibile impugnare la sentenza sul capitolo delle spese, rifacendosi appunto alle tariffe obbligatorie, qualora il giudice non le avesse ripettate ed avesse liquidato importi inferiori; per cui - virtualmente - non esisteva alcun problema di pieno riconoscimento e liquidazione delle spese legali, che con la soccombenza venivano interamente addossate alla controparte processuale.

Il DM 127/94 però è stato ormai abrogato; quindi, mentre resta l'obbligo da parte del cliente di corrispondere all'avvocato quanto pattuito, tale importo può essere largamente superiore a quanto liquidato dal giudice. Ciò comporta un evidente danno a carico del cliente, il quale dovrà corrispondere al professionista, personalmente e a sue spese, la parte dell'onorario non liquidata dal giudice; comporta altresì grave imbarazzo da parte dell'avvocato che, in caso di mancato e spontaneo pagamento di quanto pattiziamente dovuto, dovrà azionare gli strumenti giudiziari per il recupero coattivo, arrivando a chiedere l'emissione di decreto ingiuntivo nei confronti del suo stesso cliente.

La questione parrebbe risolvibile da una attenta lettura dell'art. 1 DM 140/2012 il quale prevede testualmente:  “L'organo giurisdizionale che deve liquidare il compenso dei professionisti di cui ai capi che seguono applica, in difetto di accordo tra le parti in ordine allo stesso compenso, le disposizioni del presente decreto.” In presenza di accordo tra le parti circa il compenso, quindi, i parametri ministeriali non sarebbero applicabili, ma andrebbero applicati quelli di cui al predetto accordo; le tabelle ministeriai, quindi, avrebbero mero valore residuale.

Senonchè la legge di stabilità, attualmente all'esame del parlamento, prevede un nuovo testo per l'ultimo comma dell'art. 91 CPC il quale, per la parte che qui interessa, recita: “I compensi liquidati dal giudice e posti a carico del soccombente non possono superare il valore effettivo della causa. I compensi non comprendono le spese.” Qualora tale norma superasse indenne l'esame parlamentare appare chiaro che nelle cause di basso valore (che sono però molto numerose) verrebbe introdotta una pesantissima limitazione agli onorari liquidabili, riproponendo il paradosso iniziale.

Pare a questo punto a chi scrive che in tal caso sarebbe esperibile l'ordinaria azione di responsabilità aquiliana; infatti è fuori dubbio che l'esborso economico dovuto per la prestazione professionale pattuita possa (anzi, debba) essere inquadrato quale danno emergente, e come tale addebitabile a chi tale danno ha causato, vale a dire la parte soccombente. Non si tratterebbe di chiedere solo la semplice liquidazione degli onorari di difesa ai sensi dell'art. 191 CPC, ma di instare altresì per una specifica condanna a titolo di risarcimento del danno subito e consistente nella differenza tra la somma liquidata dal giudice a titolo di liquidazione degli onorari di difesa ex art. 191 CPC e la somma effettivamente dovuta all'avvocato in seguito all'obbligazione pattiziamente assunta col medesimo per la difesa processuale. D'altra parte il novellato art. 191 CPC, pur se approvato nella predetta formulazione, non porrebbe affatto un tetto al massimo onorario pattuibile tra le parti, ma solo alla massima liquidazione giudiziaria, restando quindi intatto il dovere del cliente di corrispondere quanto pattuito all'avvocato, e conseguentemente restando intatto il danno subito dal medesimo a causa del maggior esborso patrimoniale rispetto a quanto liquidabile a titolo di spese legali dal giudice.

Ai fini dell'accoglibilità in giudizio la domanda andrà adeguatamente provata; sarà perciò necessario produrre il contratto di conferimento dell'incarico sottoscritto dalle parti, il quale servirà a quantificare con precisione l'onorario dovuto; la domanda inoltre - come già rilevato in epigrafe - dovrà essere esplicitamente formulata, non come generica istanza di condanna alla soccombenza, ma con esplicito riferimento al contratto prodotto e qualificandola come azione di risarcimento del danno; in caso si agisca come parte convenuta andrà formulata espressa domanda riconvenzionale.

A parte l'ipotesi del novellato art. 91 CPC il contratto andrà comunque prodotto, per evitare l'applicazione dei parametri ministeriali in mancanza di prova dell'accordo tra le parti circa gli onorari; e data la costante tendenza degli ultimi tempi a mortificare in ogni modo le legittime aspettative di remunerazione dell'avvocatura, potrebbe non essere una cattiva idea quella di inserire comunque la richiesta di condanna al risarcimento del danno qualora il giudice, per una qualsiasi ragione, decida di liquidare degli onorari di difesa inferiori a quelli risultanti dal contratto sottoscritto tra la parte e l'avvocato.

Si ripete che ormai non esistono più tariffe fisse; se prima il problema non sussisteva, se tale azione non aveva ragione di essere proposta in virtù di un tabellario avente cogenza normativa e della possibilità di appellare una sentenza che eventualmente se ne discostasse, oggi non è più così: vi è la nuova esigenza di tutelare il cittadino che chieda giustizia dal danno che potrebbe essergli causato dal pagamento di parcelle, perfettamente legali e dovute, superiori alle spese di giustizia liquidate.

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